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Calenda e ‘La libertà che non libera’: commenti sulle posizioni sull’istruzione tecnica
Ho già commentato su la Voce del Nord, in un articolo che potete trovare qui, le posizioni espresse da Carlo Calenda, segretario di Azione, in un’intervista a il Corriere della Sera.
Ho ottenuto accesso anche alle rilevanti pagine del suo libro, La libertà che non libera, ossia la 162 e la 163, ove l’ex ministro dello Sviluppo Economico sviluppa ulteriormente la propria visione sul tema e ritengo la sua tesi meritevole di ulteriore analisi. Consiglio ovviamente la lettura dell’articolo linkato nel primo paragrafo, per avere un’idea generale delle sue posizioni e per leggere alcune mie obiezioni ad esse.
Sono conseguentemente favorevole all’obbligo scolastico fino ai diciotto anni […]
So che risulterà una cosa un po’ inutile continuando a leggere le posizioni di Calenda, però è bene notare un paio di cose relativamente alla durata dell’obbligo scolastico.
La prima è che già oggi tutti e tre i rami dell’istruzione statale durano cinque anni, rendendo nei fatti necessario frequentare la scuola fino ai 18, se non oltre. Tuttavia, l’obbligo scolastico non può essere obbligo di andare bene a scuola, per cui per una persona che non si trova nell’ambiente scolastico l’obbligo di restarvici non implica che otterrà effettivamente un diploma.
Esiste, comunque, il meccanismo degli IeFP, ex CFP, che permette di affiancare all’istruzione una formazione professionale sul campo. Un corso IeFP dura tre anni, concludendosi dunque in media ai 17 anni, in alcune Regioni c'è la possibilità di frequentare un quarto anno e in altre anche un quinto, che alle volte permette l’accesso all’esame di Stato.
Ovviamente non ci è dato sapere se Calenda sia intenzionato ad abolire anche gli IeFP o se la sua opinione sia limitata alle scuole tecniche e professionali di Stato, in ogni caso restano due strade possibili:
- Se vuole mantenere gli IeFP, devono necessariamente diventare quadriennali, portando a un diploma professionale (EQF-4), cosa che richiederebbe un grande sforzo regionale, dato che in molte Regioni, specie oltre l’Appennino, lo stato degli IeFP non è proprio dei migliori
- Se vuole eliminarli, si apre un’altra problematica forse peggiore: per entrare nel mondo del lavoro, con qualsiasi lavoro che sia appena appena specializzato (il barista o il barbiere, per esempio) bisognerebbe passare cinque anni nel sistema scolastico più un certo tempo (poniamo caso 3 anni, come nell’attuale IeFP) per formarsi professionalmente. Il tutto senza garanzia che quei cinque anni nella scuola portino a qualcosa, dato che, come già dicevo, “l’obbligo scolastico non può essere obbligo di andare bene a scuola”.
Sostengo poi la necessità di abolire tecnico-professionali di secondo grado, ampliando l’offerta degli istituti tecnici superiori (successivi alla maturità), come strada alternativa all’università.
Qui Calenda prende una cantonata enorme. Il tema l’ho trattato estensivamente nell’articolo per la Voce del Nord, ma permettetemi una sintesi spiccia:
Gli Istituti Tecnici e Professionali sono scuole necessarie sia all’economia del Paese che a chi vi studia, poiché permettono sia di entrare nel mondo del lavoro subito che di proseguire con gli studi, oltre a varie soluzioni intermedie di grande interesse (si veda lavorare mentre si studia, così da iniziare ad avere una stabilità economica mentre si apprende, accumulando anche utile esperienza), che derivano da un modello germanico-mitteleuropeo (per referenza, vi invito a leggere questo articolo sull’istruzione svizzera) di successo, e permettono al mondo del lavoro di avere figure qualificate giovani.
Il modello delle High School funziona nei Paesi dove il lavoro è ampiamente disponibile, come Svizzera e Stati Uniti, ma anche lì esistono ovviamente correttivi e forme di istruzione professionale.
Sul collegamento tra istruzione tecnica e prosperità c'è una citazione del deputato socialista Filippo Turati che apprezzo particolarmente:
Rilievo particolare assume lo sviluppo dell’istruzione tecnica. Nell’Italia meridionale non vi è una scuola, un laboratorio, un istituto superiore, che studi l’agricoltura specializzata del paese, le malattie e la selezione delle piante, i problemi infiniti di chimica, di biologia, di meccanica, di irrigazione. Diversamente, l’esempio della Germania è lì a indicarci che cosa e come fare. Il miracolo dell’industria tedesca, realizzatosi in poco più di una generazione è stato l’esito, da un lato di una forte volontà organizzatrice, dall’altro di una sviluppatissima rete di scuole tecniche. F. Turati
Particolarmente fallace è a mio parere l’idea di superare l’istruzione tecnica con l’istruzione tecnica superiore: sarebbe come dire “aboliamo le varie lauree triennali e sostituiamole con una laurea triennale generalista, poi chi vuole si fa la magistrale per specializzarsi: vorrebbe dire lasciare solo due anni per la specializzazione tecnica.
E ciò vale anche per la proposta di Calenda: sostituire cinque anni di Istituto Tecnico o Professionale, seppur con tutti i difetti che queste scuole hanno, con due anni di ITS è improbabile, risibile e dannoso per tutti, visto che ritarderebbe necessariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, in un Paese non competitivo come l’Italia.
Per di più, anche banalmente, se esistono forme di istruzione tecnica superiore è perché esistono quelle inferiori. Chiaramente, accessibili anche a diplomati liceali (d’altronde la facoltà di lettere classiche è accessibile anche da chi esce dall’istituto professionale socio-sanitario) ma il succo è quello: se la formazione tecnica superiore diventa la prima formazione tecnica per tutti, non può essere superiore per definizione.
Tutti i ragazzi devono essere cittadini consapevoli, colti e impegnati al termine del ciclo secondario di studi e alla vigilia del loro ingresso nella vita adulta.
Fatterello divertente, lo sono. Tutti, dal diplomato al classico al diplomato al più sfigato istituto professionale della periferia. Se ne passano di non cittadini consapevoli, prendetevela con la pubblica istruzione, non con gli indirizzi scolastici.
Io, diplomato tecnico, ho studiato storia, lingua e letteratura italiana, diritto ed economia (che in molti licei non c'è!), lingua inglese e scienze naturali e lo stesso si può dire dei diplomati degli istituti professionali di Stato.
Come faccio notare nell’articolo per la Voce del Nord, si possono sicuramente migliorare alcune cose, ad esempio negli Istituti Tecnici Tecnologici (brrrrr) l’insegnamento delle scienze naturali si ferma al biennio, ed è un peccato. Ma dire che chi esce da un Istituto Tecnico non ha cultura o è incapace di entrare nella vita adulta è francamente ridicolo e sembra derivare, più che da un’analisi razionale dei fatti, da una visione classista - invero parecchio diffusa lontano dalle zone più industrializzate dell’Altitalia - che nemmeno vede gli Istituti Tecnici, scartandoli a priori.
Dopo i diciotto anni va invece favorita la specializzazione all’interno dei corsi universitari o gli istituti tecnici superiori.
Questo si può fare anche con Istituti Tecnici e Professionali di qualità, senza sprecare cinque anni prima di iniziare la reale formazione.
L’obiettivo è rendere l’operaio specializzato, così come il figlio di un notaio, in grado di scrivere in un italiano corretto
Posto che tecnicamente non sono un operaio, non sono tanto superiore rispetto a un magutto nella scala sociale della scuola italiana, e parlo un italiano assolutamente corretto. Negli Istituti Tecnici si studia la lingua italiana, si scrivono temi argomentativi, testi d’opinione, saggi brevi, articoli di giornale e relazioni tecniche. Vi assicuro che non ho mai avuto un alter ego liceale che li scrivesse per me.
Tra l’altro, dati INVALSI alla mano, ci sono Regioni in cui l’apprendimento dell’italiano negli Istituti Tecnici è migliore rispetto a quello dei Licei in altre, cosa che rende parecchio sfalsata questa analisi basata solo sulla scuola frequentata.
godere della bellezza che lo circonda
Ho due occhi, per quanto uno un po’ strabico
e partecipare alla vita pubblica
Ribadisco, in Italia la formazione tecnica e professionale è perfettamente capace di tirare fuori persone capaci di partecipare alla vita pubblica.
Per di più, su una nota polemica, la formazione scientifica, alla base di quella tecnica, è necessaria a partecipare alla vita pubblica.
È dalla rivoluzione industriale che fare politica non è più sul “convincere il mio monarca assoluto che se farà questa o quella riforma le cose andranno meglio” ma è relativa soprattutto a numeri e (direbbe qualcuno, pseudo)concetti matematici, tecnici e scientifici.
Eppure, Calenda non sembra molto interessato, tra la sua intervista e questo testo, al tema scientifico.
Mi sembra questo il più importante traguardo di una democrazia liberale forte e rinnovata. Sono parimenti convinto che dal raggiungimento di questo obiettivo dipenda il conseguimento di una società effettivamente libera.
Sono anche d’accordo, ma eliminare la formazione tecnica e professionale è proprio l’inverso di ciò che si vuole per ottenere una cosa del genere, come ampiamente mostrato nelle circa mille parole già scritte.
La cultura greca e romana va insegnata in modo più approfondito.
No.
O meglio, la cosa buona dell’attuale sistema è che ti permette di scegliere. Se ritieni utile al tuo futuro i classici romani o greci scegli uno dei licei dove si studiano.
Se avessimo un solo liceo generale, l’apprendimento della cultura romana sarebbe completamente inutile.
È una cultura morta da quasi 2’000 anni che ha solo in minima parte influenzato l’attuale cultura dei popoli romanzi. Probabilmente, avrebbe più senso studiare la cultura longobarda o bizantina, visto che hanno influito su ampie parti dell’area geografica italiana.
Pensateci, i longobardi riconoscevano la democrazia, il decentramento amministrativo, il pegno e applicavano la pena capitale solo nei casi più gravi e hanno imposto questi principi sulla popolazione latinofona delle zone che hanno conquistato (i lombardi son nati così, al netto delle leggende romantiche). Dobbiamo dunque istituire un’ora di cultura longobarda in tutte le scuole?
Sui greci, vabbè, non mi esprimo nemmeno: direi solo che, col metro del “hanno creato la democrazia” dovremmo studiare la cultura ebraica, visto che hanno scritto mezza Bibbia, cosa che ha influito non poco sull’evoluzione del pensiero occidentale.
Va dedicato più tempo alla lettura dei classici e ne va compreso il pensiero etico ed estetico.
Non amo essere inutilmente crudo, ma è ben probabile che il senso etico di un classico sia “violentare il proprio schiavo bambino è il miglior modo per educarlo”.
L’etica romana e greca era alquanto diversa dalla nostra, influenzata da quasi 2’000 anni di incontri con altri popoli, divergenze religiose e sviluppi morali differenti.
sono convinto che l’insegnamento del greco e del latino debba essere posticipato all’università, e fatto oggetto di corsi appositi.
Se siete arrivati sin qui sarete forse convinti che odi la cultura umanistica, ma non è così: sono dell’idea che sia ingiusto obbligare una persona interessata ad essa a non studiarla per cinque anni perché deve aspettare l’università. È lo stesso discorso che facevo per la tecnica, tra l’altro.
Va fatto tuttavia bene, e qui Calenda (o meglio, Russel) dà uno spunto interessante:
Scriveva Bertrand Russell: “Bisogna anche ammettere che buona parte dell’educazione umanistica tradizionale era idiota. I ragazzi sprecavano molti anni per imparare la grammatica greca e latina senz’essere, alla fine, capaci o desiderosi di leggere un autore greco o latino.”
Verissimo, ma anche riducibile al come viene insegnata. Negli Stati Uniti, oggi, viene utilizzato spesso il metodo immersivo: si impara il latino come ogni altra lingua e magari ci si fa lezione. In Italia si inizia con pallose lezioni di grammatica, una cosa che non è stimolante per tutti.
Soprattutto, a chi viene insegnata: se una persona ama la cultura umanistica non avrà problemi a studiare anche le cose noiose, ma se si vende il liceo come unica scuola valida e il latino come materia necessaria molte persone che avrebbero potuto studiare, con successo e interesse, altri argomenti si troveranno a studiare per cinque anni una materia, per loro, noiosa, riducendo il rapporto tra diplomati che hanno studiato latino (o greco) e gente che effettivamente legge in latino o in greco.
La stessa cosa, onestamente, capiterebbe se mettessimo programmazione in ogni scuola: per ogni innamorato della programmazione ne troveremmo 10 che non accenderebbero più un PC se non strettamente necessario.
Certi interessi, per natura, sono settoriali.
Un’istruzione concepita nel modo che ho delineato è sostenibile economicamente?
Dubito onestamente che fallisca economicamente, ma le conseguenze economiche dello spostamento dell’ingresso nel mondo del lavoro dubito siano granché belle.
Da tempo sostengo che il futuro sarà di chi saprà in terpretare la tecnologia con spirito umanistico.
Onestamente, cose come queste si sentono da tempo, ma non son mai diventate realtà. Specialmente, è difficile che diventino realtà in Italia dove per umanistica si intende “imparare roba storica a memoria” e non “scienze sociali”. All’estero laureati in filosofia nei CdA ci sono, nemmeno così raramente, poiché hanno una formazione che punta sul mondo reale e sulle scienze sociali, non sul “come disse il noto filosofo taldeitali”.
“La tecnologia diventerà un abilitatore a disposizione di tutti e a basso costo. Vincerà chi saprà utilizzarla, non chi sarà capace di produrla.”
Sì e no. Chi la produce, onestamente, vincerà sempre, perché chi sa utilizzarla non potrà fare nulla senza di lui. Chi sa utilizzarla può farsi dei bei soldi…
Ciò è valido per tutti i paesi; ma in Italia mille volte di più. Nessuna nazione può, meglio di noi, fondare la propria leadership sul sapere […]
L’Italia è un paese non particolarmente brillante, onestamente. Nel mondo, quando non si tratta di scienza, vende soprattutto cibo, belle auto e design. Solo la tecnologia può far uscire da questo ciclo, iniziando a esportare cose utili e non essere visti se va bene come “genio e sregolatezza” e se va male come “pizza mafia and Berlusconi”.
Francamente, la Lombardia fa quasi 1/3 dell’export italiano e cosa esporta? Libri, arte, poesie, letteratura latina? No, macchinari, prodotti tessili e chimici e materie lavorate.
Le competenze tecniche cambieranno sempre più velocemente.
Ma le basi sempre quelle sono. C'è una ragione se le figure tecniche e scientifiche devono aggiornarsi per lavorare ma non devono ridiplomarsi ogni cinque anni: servono nuove conoscenze, ma quelle vecchie valgono sempre e fanno da fondamenta a quelle nuove.
Proprio perché le competenze tecniche variano ma le loro basi son sempre valide è bene che si apprendano il prima possibile le basi teoriche e si passi a vedere poi la parte applicata, così da poter capire dove e come mettere mano e, quando il cambiamento tecnologico avviene, adattarsi.
L’istituto tecnico licealizzato post-2010, invece, guarda nell’altra direzione: via il titolo di industriale (d’altronde, ai cortei in manifestazione urlano “no al lavoro nelle scuole”, saranno anche contenti), si imparano un po’ di basi teoriche e poi si fa qualcosa di pratico fondamentalmente inutile, invece di fare subito, bene, la teoria e poi, collaborando con le industrie, guardare allo stato dell’arte.
L’obsolescenza delle competenze non è un problema delle scuole tecniche, è un problema di scuole tecniche gestite da politici che le vogliono trasformare in piccoli licei, ritengono un male il contatto col mondo del lavoro e vogliono basarsi solamente sull’insegnamento di docenti che, per ovvie ragioni, sono usciti da quel mondo da anni.
E l’alternanza scuola-lavoro/PCTO non è una soluzione risolutiva, è una farsa.
Dobbiamo aprire il cuore e il cervello dei nostri figli.
Gli antichi greci gli avrebbero aperto altro.
No, scusate, intendevo dire che è un gran bel discorso etico, ma realisticamente vale poco: alcune persone son dure di testa, altre sono intelligentissime ma hanno una visione molto “quadrata” del mondo e non son semplicemente interessate alle arti, altri amano la poesia ma non hanno grandi capacità matematiche…
Proprio per questa gran diversità è bene che esistano percorsi scolastici differenti, dove ognuno possa esprimersi al meglio, e non un percorso rigido, one size fits all.
Non è con la finalizzazione di tutta la formazione a una professione, che probabilmente non esisterà più quando i ragazzi avranno completato il loro ciclo di studi, che riusciremo a salvarli dall’insicurezza di un mondo in continua trasformazione.
Ma infatti, escludendo gli IeFP, nessuna scuola ha come visione la “finalizzazione di tutta la formazione a una professione”. Per di più, è anche abbastanza improbabile che in 5, o anche 10 anni, una professione venga completamente rivoluzionata tanto da rendere inutile una formazione professionale scolastica: è ben più probabile che sia una minaccia ad essa la politica che prova maldestramente a “sistemare le cose”, tagliando pezzi o cambiando materie, che l’evoluzione naturale del mercato.
A meno di cambiamenti epocali, molto rari, le basi di una disciplina quelle restano. Mentre il programma di una scuola si cambia tranquillamente, in meglio o in peggio, in un paio d’anni con qualche legge…
In ogni caso, anche nel caso di cambiamenti epocali è ben più probabile che sia chi ha una formazione tecnica, scientifica o matematica a guidare la rivoluzione. Si veda con l’informatica, è partita dalle facoltà di matematica, dagli studi di elettrotecnica e dalle cattedre di fisica o dai circoli di filosofia e dal dopolavoro dove si rimettono in atto le tragedie greche?
Una cosa vera nell’analisi di Calenda c'è: ci serviranno sempre meno operai non specializzati. Ma se la soluzione a questo problema è avere scuole meno specialistiche è evidente che ci sia un problema di metodo ma, soprattutto, di logica.
Mettiamola così: se le fabbriche non hanno più bisogno di chi mette i tappini sulle bottiglie a mano ha più senso formare il tecnico dei robot che mettono i tappi, il tecnico di rete robotica, il capo magazziniere e della logistica che sostituiranno chi mette i tappini o formare una nuova figura completamente sconosciuta?